CRIPTOZOOLOGIA IN ABRUZZO: LA LINCE APPENNINICA

        “o di come un essere libero si sia nascosto per più di un secolo per continuare ad esistere”

di Lorenzo Ricciuti

Criptozoologia? Niente paura, non voglio parlarvi del Chupacabras o del Sasquatch; ma l’affascinante Criptozoologia non sembra proprio, come certi ambienti accademici riterrebbero, una pseudoscienza; se non altro quando ci racconta di specie animali che si credeva scomparse e che invece sono vive e vegete, sopravvissute in luoghi impervi e lontani dal rumore terrifico delle doppiette o dall’urlo delle motoseghe. Chi avrebbe mai pensato che il Giaguaro vivesse sui Monti Santa Rita, in Arizona, a due passi dalla chiassosa Tucson, o che il suo cugino Leopardo di Zanzibar si aggirasse ancora furtivo nella giungla dell’isola? O anche, che esistesse il Ghepardo del Tenerè? Eppure tale specie criptogenica vive insperata nel cuore del Sahara, in un territorio decisamente inospitale ma altrettanto decisamente lontano dagli occhi indiscreti dell’uomo. E che dire del Ghepardo asiatico? Lo si dava per spacciato, e invece corre ancora nei desolati deserti iranici e, magari, anche nei luoghi più irraggiungibili dell’Asia centrale e del subcontinente indiano.

Ebbene, direte voi, passi per l’impenetrabile foresta di Zanzibar; ma chi potrebbe mai nascondersi nel piccolo Abruzzo? Non è mica il Sahara o la Sierra Madre dell’Arizona. Eppure qualcuno l’ha fatto: la misteriosa ed elusiva Lince.

La lince d’Abruzzo Autore: Natalucci0 https://www.juzaphoto.com/me.php?l=it&p=10659

Franco Tassi, icona italiana della preservazione e conservazione della natura, romano ma abruzzese onorario, tra l’altro presidente del beneamato Parco Nazionale d’Abruzzo dal 1969 al 2002, non ha dubbi: la Lince esiste eccome nella nostra vecchia Terra, ed esiste da sempre, non è mai scomparsa.
Chi scrive è innamorato della natura dalla prima infanzia, da quando disegnava con carta e pastelli bestie di ogni tipo e dava innocua caccia alle povere lucertole, tra l’altro rampognando gli amichetti che le torturavano; ha continuato a coltivare questa passione anche in gioventù, girovagando con curiosità per boschi boscaglie macchie in cerca di tracce di fauna con amici e amiche fidati, beccandosi gli strali di chi gli dava del pazzo perché non si aggirava come tutti gli altri per discoteche e posti rimorchiosi. In età adulta ovviamente la passione è rimasta stabile, tempo rubato agli impegni permettendo.
Insomma, amo la natura. Ma una cosa devo dirla, da buon bastian contrario: la fauna artificiale non mi ha mai convinto, gli animali introdotti o reintrodotti dall’uomo fanno scomparire tutta la poesia della natura ancestrale. Quel caterpillar di cinghiale importato dai Carpazi poco ha a che vedere col Cinghiale maremmano nostrano, i cervi e i caprioli in cui è facile imbattersi oggidì non mi emozionano perché reintrodotti dalle nere foreste del nord, e tantomeno lo fanno quei grossi toponi sudamericani che qualcuno chiama nutrie.

Nutria

Sì, ovvio, sono ben felice che, quando non fanno danni, ungulati e altre specie siano tornati ad aggirarsi nei nostri boschi e campi, ma sinceramente non capisco chi gioisce per il recente arrivo in Abruzzo dello Sciacallo Dorato: che ci azzecca con la fauna italica? Insomma, sono un po’ schizzinoso: perché mi emozioni, la fauna deve essere nostra senza mezzi termini; avrei certo il cuore in gola nell’osservare di nascosto un Orso Marsicano, sapendo che è lo stesso plantigrado che nel Cinquecento abbattevano con corazza e spadone (come attesta una ceramica storica di Castelli), o magari un lupo solitario, emblema quasi metastorico del nostro territorio; certo, i lupi si sono moltiplicati e fanno danni, ma sono ancora esseri in simbiosi con l’anima abruzzese. Meglio ancora se riuscissi ad incontrare tra le brume del primo mattino un gatto selvatico, animale fantasma sposato da sempre ai nostri luoghi più inaccessibili. La fauna deve parlarmi di storia e di antichi echi lontani, e non di fredde reintroduzioni.


Ma un improbabile incontro con la Lince mi entusiasmerebbe davvero, perché è del tutto nostrana: ne avevo sentore da tempo, ha continuato a vivere in Abruzzo nascosta da tutto e soprattutto da tutti, immersa tra faggete forre e giogaie del Parco Nazionale e dei luoghi circonvicini. E c’è di più: l’inafferrabile gattone, a detta di esperti come il citato Tassi e Francesco Mossolin, farebbe registrare la sua presenza anche nel Sud Italia, in particolare negli anfratti più segreti del Monte Pollino, della Sila, delle Serre calabresi e dell’Aspromonte.
No, non è un dèja vu, non è la comune Lince Europea, anch’essa in aumento nel vecchio continente, presente in Scandinavia, Paesi Baltici, Russia e, più vicino a noi, nei Balcani e sui selvosi Carpazi, ma anche ormai in tutto l’arco alpino. Proveniente dalla Slovenia e dall’Austria, lo ha ricolonizzato totalmente fino alle Alpi Marittime, e tutti sono contenti che il gattone sia finito finalmente in una fototrappola nel parco del Gran Paradiso, dandoci la prova tanto agognata. Ma la Nostra non è la pur stupenda Lince Europea: ha dimensioni un po’ più ridotte, un pelame meno folto che la fa apparire più magra, una maculatura più scura e infine una coda decisamente più lunga; e già gli esperti come l’immancabile Tassi parlano della sottospecie Lynx Apennina, sopravvissuta al furor destruens che l’uomo ha sempre mostrato nei confronti di grandi e medi predatori.

La Lince Europea
A questo punto un ripassino di zoologia non potrà farci male: la Lince Euroasiatica (Lynx Lynx Linnaeus 1758) è inconfondibile: snella ma muscolosa, con ciuffi di pelo sulle caratteristiche orecchie a punta e lunghe fedine rivolte verso il basso che le incorniciano il muso, è coperta da una pelliccia folta e maculata che riveste un corpo lungo 80-130 cm, alto al garrese 60-75 cm e con un peso che può variare dai 20-25 kg delle popolazioni meridionali agli oltre 25 (fino ai 40!) dei maschi orientali o dei Carpazi. Ha una coda corta che termina con un pennacchio nero, zampe lunghe e forti che le permettono di spiccare salti di oltre tre metri di lunghezza e di muoversi agevolmente nella neve. Presenta occhi grandi e chiari, emblema della sua proverbiale vista: è capace di individuare un piccolo roditore a più di 70 metri di distanza, una lepre a 300 metri, un capriolo a 600. La Lince predilige ambienti di vegetazione assai densa, favorevoli al nascondimento e agli agguati di caccia, ove vive una vita sostanzialmente crepuscolare e notturna. Preda lagomorfi come lepri e conigli, roditori, uccelli – che cattura con balzi prodigiosi, fino a due metri di altezza – piccoli carnivori e onnivori come volpi e mustelidi, ma anche erbivori di una certa taglia: caprioli in primis, ma anche cervi e daini: li abbranca sul dorso con i forti artigli e li uccide con un morso alla gola. Alla bellezza e al portamento elegante di questa meraviglia della natura fa eco anche una sua “pulizia” alimentare: divora la preda non del tutto, mangiandone le interiora o un pezzo di spalla o coscia, ma lascia tutto il resto e raramente torna a cibarsene come gli altri carnivori, felini inclusi. Come si diceva è raro incontrarla, mentre è possibile trovare segni del suo passaggio come impronte, resti di pasti, graffi sui tronchi degli alberi.

 Lince euroasiatica

Nessuno di noi ignora che flora e fauna siano in netta ripresa sullo Stivale come in tutta Europa; sorvoliamo sui perché, è un’altra storia. A noi interessa che anche il nostro scaltro ed elusivo gattone non faccia eccezione, beneficiando di una superficie forestale in enorme crescita e di succulente prede in sostanzioso aumento sul suo territorio di caccia. E’ una presenza stabile in aree “storiche” come i Carpazi o i Balcani, ma a seguito di reintroduzioni e migrazioni è ora abituale anche in Germania (Selva Nera e Harz), in Francia (Vosgi e Giura, nonché i grandi parchi delle Alpi, come il Mercantour), in Belgio e Olanda (Ardenne e Limburgo). Una vera marcia trionfale, e magari non “artificiale”, perché ha sempre popolato le aree occidentali fino a tempi recenti. E nel nostro Appennino?
La grande esclusa.
Un’autorevole monografia del Consiglio Nazionale delle Ricerche relativa alla fauna italiana, pubblicata nel 1981, ha del tutto ignorato questa specie, mentre altri pareri parimenti autorevoli escludevano a priori la presenza storica di questo magnifico animale nel nostro Paese. Per quanto mi riguarda, ricordo che negli anni ’80, in un periodo “aureo” in cui si cominciava a reagire alla débacle faunistica del Belpaese, il noto settimanale Panorama (o era l’Espresso?) pubblicava un articolo sulla misteriosa lince abruzzese, considerandola specie relitta di altre epoche o frutto di lenta migrazione dalle Alpi, che nel versante italiano cominciavano ad esser colonizzate dal nostro bel Felino. Restava il mistero. Nel 1993, nell’ambito del Progetto Biodiversità, in un’epoca di totale scetticismo – se non di ostilità – da parte del mondo accademico, nasceva il Gruppo Lince Italia, ovviamente coordinato dal solerte Prof. Tassi: un’équipe assai mobile, attrezzata e preparata, che con un lavoro certosino raggiunse validi risultati, nonostante la diffidenza di taluni circoli accademici, che tra l’altro diffondevano la voce secondo cui la presunta Lince Appenninica altro non sarebbe stata che il parto di rilasci clandestini nella Marsica.
Dopo un triennio di gravi difficoltà, dovute alla drammatica crisi del Parco Nazionale d’Abruzzo presso il quale operava, il Gruppo è ripartito nel Centro Studi-Comitato Parchi di Civitella Alfedena, e sta ora riprendendo la propria attività con la consueta determinazione. Ha già raccolto una cospicua documentazione storica (ci piace sottolinearlo, in barba a chi afferma che il felino non sarebbe mai vissuto nello Stivale), nonché circa un migliaio (sic!) di segnalazioni recenti dall’Appennino (prevalentemente centrale, ma anche meridionale e settentrionale). Tutti elementi piuttosto attendibili, o comunque molto interessanti. Fra le altre cose, l’équipe ha presentato una nota ufficiale al Convegno Internazionale sulla Fauna Euromediterranea del 2003 e sta ora approfondendo le indagini sulle popolazioni meridionali della Lince, e non soltanto in Italia. Nel Mezzogiorno, s’indaga nei selvaggi e sconosciuti Monti di Orsomarso, a sud-ovest del maestoso Pollino, nella Sila e nell’Aspromonte, ma anche nelle Serre e nella Catena Costiera.
Orsomarso… ma perché un luogo della suggestiva Calabria nord-occidentale ha un suono così abruzzese? Ci si affida alle raffinatissime tecniche della Critozoologia, in attesa che anche il mondo accademico la smetta di definirla pseudoscienza.
Franco Tassi ha fatto proprio il principio di Carl Sagan, “L’assenza di prova non è prova di assenza”, ed ha pubblicato il libro “Misteriosa Lince”, dall’eloquente sottotitolo “Bentornato Gattopardo”. E noi ci uniamo al coro del “bentornato”, attendendo altri riscontri dal mondo scientifico.

Non solo criptozoologia, ma anche storia. Per non parlare delle testimonianze odierne.
La Lince, in Italia, è un animale…invisibile, fantasma. Le tradizioni folcloriche del nostro Paese ne raccontano mille sull’orso, altre mille sul lupo, sull’aquila, su bisce e serpenti; ma nulla sulla sfuggente lince. Come se questo felino, tra l’altro piuttosto corpulento, passasse inosservato nel pur ricco immaginario mitico-ancestrale delle nostre genti. Lasciamo agli antropologi il perché di tale scotomizzazione; a noi interessa la presenza nel nostro Paese, in ambito storico, del mitico Lupo Cerviero: eh sì, proprio con questo nome evocativo era conosciuto nella spina dorsale del nostro Stivale.
Partiamo dall’assunto accademico secondo cui non esisterebbero prove scientifiche della sua presenza: la Lince non è mai vissuta sull’Appennino, anche nei secoli scorsi. Ebbene, anche qui il Prof. Tassi è pronto a confutare tale scetticismo, adducendo nel libro succitato testimonianze e prove di vario genere, come ad esempio la voce dello studioso Oronzo Gabriele Costa, che ne “La fauna del Regno di Napoli” (1832) afferma di aver visto delle linci uccise nel distretto di Lanciano. Fra i collaboratori del Gruppo citato, Francesco Mossolin conferma la presenza di parecchi documenti storici comprovanti l’esistenza della Lince appenninica, come le minute descrizioni che vanno dal Seicento all’Ottocento e parlano di esemplari catturati in Abruzzo e poi finiti, come moda dell’epoca, nei serragli dei nobili. Vi sono poi le testimonianze di cacciatori che fanno appostamenti lunghissimi; non manca il resoconto di Sipari, primo direttore del Parco Nazionale d’Abruzzo in quel 1922, il quale si mostra sicuro dell’esistenza della lince in Appennino, se non altro avendo ascoltato i racconti del padre cacciatore, che di linci ne aveva ben uccise.

Un viaggiatore svizzero di 230 anni fa…dà ragione a Tassi ed al suo Gruppo.
Preziosa è poi la documentazione prodotta dal naturalista e botanico svizzero C. U. De Salis Marschlins, interessante anche perché ci dimostra che i colti viaggiatori che in epoca romantica o pre-romantica effettuavano il Grand Tour della Penisola, spesso transitavano per il nostro Abruzzo e l’apprezzavano. Siamo nel 1789 e il De Salis, ospite dei baroni Tomasetti in quel di Pescina, ci parla della lince, “che pare abbondi in queste montagne”.

C. U. De Salis Marschlins

Uno dei Tomasetti, appassionato cacciatore, ne aveva addomesticati diversi esemplari. Così il naturalista: Si trova questa spesso, nei boschi dell’Abruzzo Ultra, dove vien chiamata comunemente il Gatto Pardo, ed è di poco più piccola di quella che è stata vista non di rado nelle montagne dei Grigioni […]. La lince dell’Abruzzo è un poco più scura, è alta dai diciotto ai venti pollici, ed è lunga dai ventiquattro ai ventisette pollici. […]. E’ ordinariamente di colore bianchiccio, con delle macchie come stelle di un rosso giallognolo, cangiante in giallo oro. Il pelo è corto e morbido; la testa grande, ed i baffi, i denti, e gli artigli, lunghi ed affilati. Insomma, si parla a chiare lettere di una ben precisa variante della lince comune europea, come vogliono i nostri ricercatori…c’è da rimanere “Di Salis”! Il nobiluomo svizzero continua parlando del facile addomesticamento di questo gattone, che fa le fusa tra le braccia del padrone e gira per casa senza lasciare un solo angolo inesplorato. Ma…curiosity killed the cat, dicono gli inglesi; e il De Salis annota l’episodio tragicomico in cui una femmina di lince perdette la vita, per essersi introdotta dentro la conduttura di un cesso. Lo Svizzero conferma altre notazioni degli zoologi contemporanei: l’animale non divora tutta la preda, e vive preferibilmente tra le boscaglie più fitte ed estese. Nota inoltre che – destino di tutti i migliori a questo mondo – viene accanitamente perseguitata: dagli uomini, dai cani, dai lupi e dai grossi serpenti. Il naturalista di 230 anni fa conclude ribadendo la diversità tra la lince appenninica e quella comune: …io credo che la lince dell’Abruzzo si possa classificare in quella specie che lo Schreber chiama lince-gatto. E’ in verità più piccola ed ha le macchie più distinte.
Insomma, dalla penna del nostro Grigionese sembra venir fuori una vera predilezione per questo predatore; predilezione che non aveva per Furca Carosa (Forca Caruso), che doveva attraversare sapendo che era battuta da gelidi venti, nonché infestata da pericolosi banditi.

Ed oggi?
Fino al 1926 abbiamo testimonianze sul micione; poi il vuoto per mezzo secolo, finché non ritorna l’interesse per il Lupo Cerviero del centro-sud negli effervescenti anni ’80 del secolo scorso.
Sempre il solito Tassi, già dalla fine degli anni ’60 cercava testimonianze sugli animali del Parco. Chiedendo, con un fare che sarebbe sembrato più da antropologo che da zoologo, ai pastori del Lupo o dell’Orso, s’accorgeva che a questi rudi uomini dei boschi e delle alte praterie non sfuggiva niente, e che avevano familiarità stile Dersu Uzala con ogni forma vivente; ma quando domandava della Lince nessuna risposta, totale sbigottimento, salvo poi scoprire che…era conosciuta con un altro nome: non Lupo Cerviero, ma addirittura Jattepàrde, Gattopardo. Ebbene, il Gattopardo era sovente avvistato dai pastori, ma non solo da loro: a volte i cercatori di funghi ne vedevano, forse perché, immobili e protesi in avanti, non impensierivano il nostro elusivo felino. E l’epiteto non ci è nuovo: un gattopardo era quello che campeggiava sullo stemma dei principi di Salina di tomasiana memoria; era dunque, con ogni probabilità, una Lynx apennina.


E visto che siamo finiti alla cultura, ricordiamoci della benemerita Accademia dei Lincei, nata nel 1603 a Roma, una delle istituzioni scientifiche più antiche d’Europa. Erano anni in cui la Scienza esordiva tra i mille sguardi guardinghi dei dotti aristotelici, ed era mille miglia lontana dagli scientismi conclamati del III millennio. Quegli studiosi, a differenza di altri , si prefiggevano il compito di penetrare molto più a fondo i segreti della natura, carpendone l’essenza. E come emblema scelsero proprio una lince – nota per la sua vista acuta – quella raffigurata da uno dei Lincei, Francesco Stelluti, che con ogni probabilità riprodusse un felino appenninico.
Insomma, pare proprio che questa Lynx apennina sia proprio esistita ed esista tuttora. Ma allora, dirà qualche scettico, perché non cade nelle fototrappole come tanti esseri misteriosi a quattro zampe? Gli studiosi del Gruppo Lince risponderebbero che avverte l’odore dell’uomo e dunque gira al largo. Se poi troppi escursionisti non riescono a scorgerla tra faggi e carpini, è solo perché non vuol farsi vedere lei; le basta uno dei suoi salti di tre metri ed eccola appollaiata e silenziosa su un grosso faggio: noi passiamo chiacchierando trascinandoci i nostri zaini pieni di birre e panini, lei ci guarda sorridendo sotto i mustacchi.

E aggiungo qualcosa anch’io
Una piccola esperienza, per quanto indiretta, di qualche anno fa: un mio amico si era perso col suo gruppetto di escursionisti della domenica nei boschi di Opi, in pieno Parco Nazionale. Mentre scruta l’orizzonte di faggi, preoccupato perché è ormai l’imbrunire, scorge la sagoma di una lince, che ovviamente si fa ammirare solo per due secondi, prima di sparire nella fustaia. Mi racconta qualche tempo dopo l’accaduto, ed io ovviamente rido e realizzo che mi sta canzonando, conoscendo lui la mia fissa per la fauna; ma poi si fa serissimo, aggiungendo che aveva riconosciuta la “belva” dalle sue inequivocabili fedine e dalle orecchie a punta e a ciuffetto. Non era un gatto selvatico, non era un lupo: era lei!
Per quanto mi riguarda non ho mai avuto un “incontro ravvicinato” con questo bel felino, ma una considerazione da profano sulla sopravvivenza criptica del lupo cerviero vorrei comunque farla. Ho i capelli brizzolati del fresco sessantenne ed ho vissuto di persona i cambiamenti del territorio abruzzese negli ultimi decenni: ieri i boschi erano piuttosto rari, oggi rari sembrano essere diventati i coltivi; dove i contadini strappavano terra da coltivare ai pendii ora prosperano ovunque coperture arboree di ritorno, mentre la superficie forestale è balzata dal 20% degli anni ’70 del secolo scorso a circa il 36% di oggi; e questo senza considerare prati, praterie d’alta montagna, pascoli e pietraie. La popolazione, poi, sembra essersi trasferita in massa sulla costa: troppo entroterra spopolato, troppa densità chiassosa sulla riviera; e allora oserei dire che oramai in Abruzzo vi sono luoghi anecumenici, dove non vive e non va più nessuno. Certo, la montagna poi spesso si popola di escursionisti e sciatori, per fortuna. Ma è ormai sparito quel piccolo mondo antico di agricoltori montani, pastori, taglialegna, carbonai ed anche cacciatori che calpestavano con piede sicuro le nostre zone interne. Ma ci sono ovunque sentieri per escursionisti, direte voi. Beh, non sarei tanto d’accordo. Anche gli amanti della natura non sfuggono ai circuiti più in voga: Majella, Gran Sasso, stazioni sciistiche e dintorni, Velino-Sirente, magari Laga… ma poi? Chi va a fare escursioni nell’Alto Vastese o in certe plaghe desolate della Marsica o, ancora, in quella piccola Amazzonia (così mi piace chiamarla) che sta a nord-est di Roccaraso? Chi andrebbe a scarpinare in quella desolatio che va da Lettopalena fino ad Archi, chi nel gelido versante a bacìo della lecceta di Casoli? “Che si strilli nun c’è chi t’arisponna”, avrebbe chiosato il buon Belli. Intendiamoci, sono posti che meritano e che amo tanto, ma che oggi sono decisamente spopolati; un tempo vi si coltivava della buona terra, oppure vi si pascolavano gli animali; oggi chi lo farebbe? E chi, fra i cittadini amanti della “sana camminata in montagna”, parte la mattina per queste mete? Ebbene, basti prendere una vecchia mappa IGM, oggi non più in uso perché soppiantata da Google Maps, per scoprire che un tempo queste plaghe erano luoghi profondamente antropizzati: ogni giogaia, ogni pianoro, ogni roccia o scoscendimento ha un nome, datogli da secoli di duro lavoro e familiarità dalla gente di montagna ed alta collina. E allora torniamo alla Lince.
Chi ci dice che il nostro gattone non abbia approfittato della lunga e totale assenza dell’uomo su monti, colline e pianori per tornare indisturbato signore di questi luoghi? Fino agli anni ’70 qualcuno l’avrebbe scoperto e magari ucciso, ma non certo oggi. Chi ci dice che in certi posti dimenticati da tutti la lince non abbia preso a prosperare da squatter che era, fino a far parlare di sé? Ovvio, non sono uno scienziato, ma lancio questa tesi agli addetti ai lavori. A me sembra del tutto plausibile.

Mi piace.
Mi piace questa Lince. Forse perché da ragazzino, leggendo Gli animali e la loro vita dalla scarlatta copertina, mi ero appassionato alla Lince Pardina, altra misteriosa cugina iberica dalle orecchie a punta, che si muoveva con passo felpato nei recessi delle Sierre spagnole e nelle marismas del Guadalquivir; m’incuriosiva perché era una sorta di emblema di libertà, sopravvissuta al furor iconoclasta dell’uomo sgattaiolando in mezzo a rovi pruni lentischi garrighe ed altra intricata vegetazione mediterranea.

                               Lince Pardina

Una banale pineta piantata, come si usava fare allora, da un ambientalismo malaccorto che credeva di far bene l’avrebbe uccisa, privandola di quell’irrinunciabile e vitale intrico profumato. Ma la cartina della “distribuzione geografica” che campeggiava sulla pagina del libro non lasciava speranza: qualche punto interrogativo qua e là, finanche sulla Sardegna, ma nulla sull’Appennino. Dovevo trovarla, ma con chi andare? Se l’avessi detto ai miei amici quindicenni sarebbero scoppiati a ridere: per loro il mondo era fatto solo di motociclette, sport e ragazze, e d’altronde alla loro età avevano anche ragione. E allora continuavo a sognare il misterioso felino fra dune costiere e cespugli odorosi, sperando d’incontrarlo un giorno.
Mi piace questa Lince. L’ho già detto, perché non è un parto di quell’animalismo ossessivo che ci ha riempito di alieni in carne, corna e zanne; perché odora di storia, di contadini del Seicento col pizzetto e il cappellaccio che si muovono furtivi coi loro schioppi nella riserva del Barone. Lynx tota nostra est, direi parafrasando Orazio.
Mi piace questa Lince. Perché in tempi in cui va di moda la resilienza mi ricorda invece la resistenza dei Broncos, gli ultimi guerriglieri Apache, che dettero filo da torcere agli invasori bianchi fino al 1935 (sic!), nascosti nei loro covi della Sierra Madre Occidentale al quadruplice confine tra gli stati di Arizona, Nuovo Mexico, Sonora e Chihuahua. Chiunque sia appassionato di epopea del West sa che l’ultimo atto della resistenza indiana fu quello di Geronimo nel 1886, e che l’epoca delle Guerre Indiane si chiuse definitivamente col massacro di Wounded Knee del 1890. Poi d’un tratto scopri i Broncos e scopri inopinatamente che gli ultimi Apache liberi continuarono a guerreggiare dai loro recessi inesplorati ben oltre la fine dell’Ottocento. Addirittura, il VII Cavalleggeri veniva chiamato…per telefono! Se gli indiani avessero saputo della lince abruzzese l’avrebbero adottata come simbolo di fierezza e libertà, come “animale medicina”.
Mi piace questa Lince, perché è un emblema di libertà: la stermini, l’insegui, radi a zero il suo habitat, ma lei non si fa trovare, fugge via con un balzo, pone finanche in dubbio la sua esistenza; ma poi si fa vedere da un innocuo fungarolo e magari gli si avvicina.
Mi piace questa Lince, perché un giorno forse la incontrerò: la guarderò negli occhi sognando quella libertà negata ad ogni essere umano, prima che sparisca con un balzo nel folto di una faggeta primordiale.

 

Lorenzo Ricciuti 

 

BIBLIOGRAFIA.
– AA.VV. – Abruzzo Guida alla fauna – Assessorato al turismo;
– C.U. De Salis Marschlins – Viaggio attraverso l’Abruzzo nel 1789 – Adelmo Polla Editore.

WEB-GRAFIA.
– Interviste al “Gruppo Lince” e al Dott. F. Tassi (https://www.google.com/search?newwindow=1&sca_esv=583062323&sxsrf=AM9HkKn9tnzsBiTYt6ZYSYM1hf4_VsNFvg:1700156551721&q=la+misteriosa+lince+franco+tassi&tbm=vid&so https://www.facebook.com/watch/live/?ref=watch_permalink&v=3791083997618520 )
– https://www.neveappennino.it/news/lince-in-appennino/
– https://www.notiziedaiparchi.it/comitato-parchi-la-verita-rifiutata-il-ritorno-del-gattopardo/
https://www.comitatoparchi.it/gruppo-lince-italia/