SCANNO (AQ): LE GLORIE DI SAN MARTINO

 

La festa di San Martino, dappertutto, è caratterizzata da momenti di spensieratezza e divertimento, né l’Abruzzo si sottrae alla regola. Rumorose compagnie di questua, composte da ragazzi e bambini, la sera della vigilia girano di casa in casa, reggendo un’enorme zucca svuotata e trasformata in lume; allegre brigate improvvisano serenate scherzose all’indirizzo dei mariti infelici e affiatati comitive di amici, con la scusa del vino novello, e delle brumose serate, in cui l’autunno incipiente ormai volge, si trovano in pantagruelici convivi, intorno a montagne di salsicce rosolate, prelibati spiedi di rara cacciagione, sontuose pochette.

Qualcuno riconosce nella consuetudine i resti del Capodanno celtico che la dominazione longobarda diffuse in vaste zone centro-settentrionali, insieme ad altre forme di religiosità, compreso il culto per il Santo guerriero della Pannonia, che concludeva il ciclo dei festeggiamenti per il nuovo anno agrario, aperto con la ricorrenza di Ognissanti. Ma a Scranno, la notte di San Martino acquista una suggestione diversa, forse perché la tradizione rivela caratteri più che altrove arcaici ed originali, o forse perché la particolare dimensione architettonica e naturale in cui è immerso il centro conferisce all’evento un fascino misterioso e coinvolgente.
Il paese, già dalle prime ore del pomeriggio, si anima di un andirivieni festoso, di richiami gridato da strada e finestra, di mamme che raccomandano inutilmente, la prudenza, mentre c’è un correre di ragazzi ad ammassare legna, frasche, ogni materiale che prometta di ardere è di far fumo a sufficienza sulle alture di Cardella, della Plaia e soprattutto dinnanzi alla grotta di San Martino in contrada Decontra.

Originariamente la festa si svolgeva solo in questa località in cui la leggenda narra presenze miracolose del Santo che si sarebbe rifugiato nelle cavità della montagna, ma da qualche anno i gruppi si dividono per rioni e improvvisano una competizione che raggiunge toni accesi di sfida. Intorno ai falò si vive un’atmosfera di grande allegria: si improvvisano canti, balli, abbondanti libagioni in un clima di collettiva spensieratezza, sempre tenendo presente l’impegno di raggiungere effetti più spettacolari o, per lo meno, di far ardere la propria Gloria, meglio e più a lungo di quelle degli altri.
Quanto sia antica la tradizione delle Glorie non è facile dirlo, mancando al proposito una sicura documentazione letteraria e dovendo ogni criterio valutativo affidarsi solo a quella o tale. Un qualche aiuto è offerto dagli aspetti formali della festa che, allo stato attuale, non sembrano aver subito una sostanziale caduta di valori originari, i quali si inquadrano nel vasto scenario delle cerimonie di purificazione e rinnovamento in cui il fuoco è utilizzato come elemento liturgico e culturale. Un’espressione rituale di grande spessore resta l’abitudine dei ragazzi di fingersi il viso con il nero della fuliggine prima di iniziare a ballare e cantare intorno al fuoco agitando grossi campanacci. La loro presenza riconduce alla evocazione di forze nascoste ed oscure del mondo sotterraneo da cui dipendono la vitalità e la rinascita della vegetazione, in un momento di crisi e di incertezze quale è l’inizio dell’anno agrario e della produzione cereale che si apre con la semina. Del resto anche altri elementi concorrono a ritenere le Glorie un rituale vegetativo.
La consegna del Palancone bruciato alla sposa novella di ogni rione e conseguente elargizione di donativi alimentari, aderisce a certi rituali della fecondità presenti in tutte le espressioni del mondo agrario, e sullo stesso livello si colloca il Dolce con la Moneta, una sorta di ciambellone ripieno riservato ai bambini.

Nell’uno e nell’altro caso la logica delle civiltà primitive, discesa poi in quelle tradizionali, mette in atto una struttura cerimoniale all’interno della quale ciascuna componente del gruppo si pone come immagine speculare della divinità e assume un ruolo metastorico condizionato al momento festivo. Quindi la Sposa Novella rappresenta, per una similitudine di condizione, la giovane Grande Madre sacrificata per il bene comune nelle oscurità del sottosuolo, dove ha assunto la funzione di padrona e dispensatore delle ricchezze, così come i bambini di casa, premiati con la Moneta nascosta nel Dolce, sono il tramite tra il mondo degli uomini e quello dell’eterno ritorno alla giovinezza divina che passa ovviamente attraverso i morti.

 

 

Tratto da “Abruzzo 150 Antiche Feste” di Maria Concetta Nicolai, D’Abruzzo Edizioni Menabo’ 2014