Febbraio è un mese di confine: l’inverno resiste con i suoi silenzi ovattati e i colori caldi, ma nell’aria già si percepiscono i primi sussurri della primavera. È un periodo intimo, fatto di giornate che lentamente si allungano e di momenti in cui ci si rifugia ancora volentieri in casa, mentre gli amanti dell’azione cercano gli ultimi scenari innevati o mete insolite da esplorare. E poi ci sono i viaggiatori della mente, quelli che attraverso le pagine di un libro scoprono mondi lontani, o addirittura chi, seduto comodamente in poltrona, scrive storie di terre mai viste. A proposito, sapevate che Jules Verne non ha mai visitato i luoghi dei suoi racconti? Eppure è riuscito a trasportarci in viaggi incredibili usando solo l’immaginazione.
E cosa c’entra tutto questo con noi? È il perfetto preludio alla prossima meta che vogliamo farvi scoprire. Un luogo dove natura, leggende e spiritualità si intrecciano, pronto ad affascinare sia chi ama viaggiare da casa che chi è sempre in cerca di nuove avventure.

Questa volta il nostro viaggio ci porta a Lettomanoppello, un piccolo paese della provincia di Pescara, noto come “la città della pietra” per le sue antiche tradizioni legate alla lavorazione della pietra della Maiella. Questo suggestivo borgo è il punto di partenza per raggiungere la Grotta di Sant’Angelo, un luogo nascosto tra le pieghe della Majella, dove il tempo sembra essersi fermato. Qui, il tangibile e il misterioso si incontrano, intrecciando sacro e profano in un racconto che affascina e intriga.
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La grotta si trova all’interno del Parco Nazionale della Majella, a pochi chilometri da Lettomanoppello. Il sentiero, però, non è da prendere alla leggera: non aspettatevi una passeggiata sul lungomare di Pescara! Questo percorso di montagna attraversa il fosso Sant’Angelo, tra Lettomanoppello e Roccamorice, seguendo il corso dell’omonimo torrente. Durante il tragitto si possono ammirare antiche cave di pietra bianca e suggestive capanne agro-pastorali, testimonianze della vita rurale di un tempo.
Le origini incerte della statua
L’origine dell’eremo della Grotta di Sant’Angelo è avvolta nel mistero, e non si hanno notizie certe sulla sua fondazione. Tuttavia, un’importante fonte storica emerge dai Decreti della Prima Santa Visita del vescovo di Chieti, Giosuè Maria Saggese, risalenti al 1844. In questo documento, si menziona la presenza di una chiesa in rovine situata in contrada Sant’Angelo, verso la quale veniva celebrata una processione annuale ogni 8 maggio.

Una possibile datazione dell’eremo può essere ricavata dalla statua di San Michele Arcangelo, ritrovata all’interno della grotta. Si ritiene che questa sia stata scolpita dalle stesse maestranze che realizzarono la statua dell’Angelo Gabriele posta accanto alla finestra dell’abside della Chiesa di San Tommaso a Caramanico, risalente al XIII secolo. Questo dettaglio permette di ipotizzare che l’eremo fosse già un luogo di culto significativo nel Medioevo.
La grotta stessa, larga circa 22 metri e profonda 8 metri, è divisa in due da una parete rocciosa. All’interno dell’androne si trova un recinto rettangolare pavimentato con lastre di pietra, noto come “letto di Sant’Angelo”, che potrebbe rappresentare i resti della chiesa menzionata dal vescovo Saggese.
Al centro della grotta, in posizione elevata e poggiata su un capitello, si trova la statua di San Michele Arcangelo. Si ritiene che questa fosse precedentemente ospitata nella chiesa ormai scomparsa. Tuttavia, la statua attualmente visibile nell’eremo è una riproduzione, poiché l’originale è oggi custodito presso il Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara.

“La Grotta di Sant’Angelo: un dialogo millenario tra sacro e profano”
La Grotta di Sant’Angelo è uno dei luoghi più affascinanti della Majella, dove natura, storia e spiritualità si intrecciano in un dialogo senza tempo. Immersa nel silenzio di una natura incontaminata, questa grotta è stata testimone di una lunga evoluzione culturale: da luogo di culto pagano, dedicato forse a divinità legate alla fertilità e alle acque, a santuario cristiano consacrato a San Michele Arcangelo.
Prima dell’avvento del cristianesimo, la grotta era probabilmente consacrata a divinità italiche o romane legate alla fertilità e alle acque sacre, come Bona o Fauno. Questi antichi culti attribuivano alle grotte un simbolismo profondo: il grembo della terra, dove la vita nasce e si rigenera, e le acque, simbolo di purificazione e prosperità. La presenza di vasche naturali nella grotta rafforza l’ipotesi che qui si svolgessero rituali legati alla fertilità e alla guarigione, pratiche che continuarono anche nei secoli successivi, adattandosi al cristianesimo.

Con la diffusione del culto di San Michele Arcangelo, promosso dai Longobardi a partire dal VI secolo, la grotta venne consacrata all’arcangelo guerriero, protettore contro le forze del male. San Michele, spesso associato a luoghi elevati e grotte, si inserisce in un processo di sovrapposizione culturale: gli antichi simboli pagani vennero reinterpretati in chiave cristiana, mantenendo però intatto il fascino arcaico del luogo.
Oltre al valore spirituale, la grotta rivela anche tracce di un possibile edificio sacro situato nelle vicinanze, forse un eremo o una piccola cappella monastica, che testimonia la frequentazione del sito da parte di monaci benedettini o celestiniani. Questi, come spesso accadeva, adattarono i luoghi di culto preesistenti alla nuova religiosità cristiana.
La Grotta di Sant’Angelo rappresenta oggi un luogo che invita alla riflessione e al raccoglimento, dove il sacro e il profano continuano a dialogare, raccontando una storia lunga secoli.

Leggende e il culto delle acque
La Grotta di Sant’Angelo è avvolta da un’aura di mistero, alimentata da leggende tramandate nei secoli. Una delle storie più suggestive narra di un uomo di comprovata santità che viveva tra il paese e la grotta. Quest’uomo, descritto come un anacoreta dedito alla preghiera, un giorno scomparve misteriosamente. Poco dopo la sua sparizione, nella grotta dove era solito ritirarsi apparve una statua raffigurante un angelo.
I fedeli, colpiti dall’evento, decisero di portare la statua nella chiesa del paese. Tuttavia, dopo tre giorni, la scultura scomparve, ritornando inspiegabilmente nella grotta. Si racconta che sulla roccia rimasero impresse le orme dell’angelo, un segno tangibile della sacralità del luogo. Questa leggenda non solo rafforza il legame spirituale tra la grotta e la comunità, ma sottolinea anche il ruolo della grotta come spazio privilegiato per la manifestazione del divino. Ancora oggi, alcuni pellegrini giurano di vederle: sbiadite ma presenti, queste orme sembrano sfidare il tempo, evocando un legame eterno tra il cielo e la terra. Che sia suggestione, fede o realtà, quelle tracce alimentano la devozione e il desiderio di ritrovare, almeno per un istante, una connessione con il divino.
Un’altra leggenda curiosa racconta che la statua di San Michele, originariamente situata presso una sorgente vicino a Serramonacesca, si sarebbe spostata miracolosamente alla Fonte del Garzillo. Questo evento, attribuito al malcontento dell’angelo per le chiacchiere delle donne che lavavano i panni presso la precedente sorgente, rafforzò la sacralità del luogo e la sua centralità nella devozione popolare.
Le leggende, per loro natura, hanno il potere di trasformarsi. Pur mantenendo lo stesso insegnamento o la stessa metafora, si intrecciano come fili in un arazzo, mostrando ogni volta un disegno originale. E così, la storia della statua di San Michele Arcangelo si trasforma in una nuova narrazione, una di quelle che inizia con: “Si narra che, molti anni fa, nella piccola chiesa del borgo di Roccamorice giunse una statua di San Michele Arcangelo”. Alta, imponente, con un viso fiero e uno sguardo capace di perforare l’anima, la statua sembrava scolpita per dominare gli spiriti ribelli e proteggere i fedeli. Ma appena tre giorni dopo il suo arrivo, accadde l’incredibile: la statua scomparve. Il paese intero fu avvolto dal panico. Chi avrebbe osato rubare il santo guerriero? Dopo giorni di ricerche, la statua fu ritrovata proprio nella Grotta di Sant’Angelo, a chilometri di distanza dal borgo.
L’episodio lasciò gli abitanti esterrefatti. Non poteva essere stata una mano umana a spostarla, ma qualcosa di superiore. Per i più devoti, il messaggio era chiaro: l’arcangelo aveva scelto quel luogo. Tra quelle pareti di pietra, cariche di energia primordiale, San Michele voleva rimanere come custode e protettore, un simbolo eterno della connessione tra cielo e terra.

Accanto alle leggende, spicca il profondo legame della grotta con il culto delle acque, una tradizione radicata nella Majella e in molte altre grotte della regione. Le acque che sgorgano nei pressi della grotta erano considerate sacre, attribuite di proprietà taumaturgiche, e utilizzate per riti di purificazione e guarigione. Questo legame richiama, come accennato all’inizio dell’articolo, gli antichi riti pagani, successivamente reinterpretati in chiave cristiana. In questa nuova visione, l’acqua, simbolo universale di purificazione e rigenerazione, si fonde con la spiritualità e la devozione, trasformando la grotta in un luogo che unisce il sacro e il naturale.
Ma il legame con il divino non si limita alla grotta. Nei pressi si trova la Fonte del Garzillo, una sorgente ritenuta miracolosa e strettamente legata al culto di San Michele Arcangelo. Secondo la tradizione, il santo avrebbe reso terapeutiche le sue acque, utilizzate in riti di guarigione e purificazione. Ogni anno, l’8 maggio, i fedeli si recano in processione alla grotta e poi alla fonte, in un rituale che unisce fede e natura.
Infine, antiche testimonianze parlano di una chiesetta rupestre vicina alla grotta, che conobbe il suo declino intorno al XVI secolo, quando la frazione di Sant’Angelo scomparve. Nonostante il passare dei secoli, questi racconti continuano a vivere nella memoria collettiva, intrecciando il sacro e il misterioso, la natura e la fede.
Si dice che il pensiero sia in grado di fare miracoli, e credere in Qualcosa o in Qualcuno rappresenta quel “carburante” che ci permette di raggiungere le vette più alte o i mari più profondi. Scriveva Giordano Bruno: “Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia”. L’uomo è infinitamente libero: “Che ci piaccia o no, siamo noi la causa di noi stessi” e ancora: “Ignoriamo che siamo ciechi e sordi. Allora ci assale la paura e dimentichiamo che siamo divini, che possiamo modificare il corso degli eventi, persino lo Zodiaco”. Forse è proprio così, se pensiamo ai tanti miracoli avvenuti in questa grotta, alle guarigioni inspiegabili di persone che, toccando la roccia o pregando davanti alla statua, trovarono sollievo a malattie e dolori. La grotta non fu solo un rifugio per l’angelo ribelle, ma anche per le anime in cerca di conforto e speranza. Racconti tramandati di generazione in generazione ci portano un messaggio che ha attraversato i secoli, mettendoci di fronte a una fede che, spesso, abbiamo dimenticato. Una fede che ci ha allontanati dalla “Fonte Primaria”, dal nostro rapporto con il Divino e, in parte, con noi stessi.
Visitare la Grotta di Sant’Angelo, anche solo attraverso il potere delle parole, è un viaggio nel cuore delle leggende abruzzesi. È un luogo che richiama i misteri della fede e della natura, invitandoci a riflettere su cosa significhi davvero credere. Forse la vera domanda che la Grotta di Sant’Angelo ci pone è questa: cosa significa oggi, in un mondo che sembra aver perso i suoi punti di riferimento, ritrovare il contatto con il divino, con la natura e con noi stessi? Ogni viaggio, anche quello immaginato, inizia sempre con un passo. Forse quel passo è proprio riscoprire luoghi come questo, dove il sacro incontra il quotidiano, e la fede, quella autentica, ci ricorda che siamo parte di un Tutto.
Rossella Tirimacco