LA MADONNA DELLA LIBERA: IL CULTO, IL DIPINTO TRA ARTE E MITO

Secondo la tradizione popolare, maggio è il mese dedicato alla Madonna. Una consuetudine che affonda le sue radici già nell’antica Grecia, quando questo mese era consacrato a divinità femminili legate alla fertilità e alle fioriture. Ne deriva che secoli di memoria popolare si sono stratificati nel tempo, radicandosi profondamente — forse persino imprimendosi nel DNA degli abitanti del Centro-Sud Italia. Le rappresentazioni e le feste popolari che in questo mese omaggiano Maria, nelle sue molteplici declinazioni, sono numerose. C’è sempre un paese, un borgo, una frazione o una qualsiasi località che conserva leggende, storie e narrazioni a lei dedicate. E ogni luogo ha una propria tradizione per celebrarla. Stavolta ci spostiamo a Pratola Peligna, nel cuore dell’Abruzzo interno, per conoscere da vicino una di queste rappresentazioni mariane: la Madonna della Libera.

Una leggenda tra sogni, peste e buoi

Pratola Peligna, nel cuore della Valle Peligna, è conosciuta da secoli come “il paese della Madonna”. Qui, il culto mariano ha radici profonde, sospese tra storia e leggenda, tra fede e tradizione. Protagonista assoluta è lei: la Madonna della Libera, la cui presenza attraversa il tempo e si manifesta ogni anno con riti che coinvolgono l’intera comunità.

Secondo la leggenda, tutto ebbe inizio all’alba del XVI secolo, quando un uomo di nome Fortunato, rifugiatosi tra i ruderi di una chiesetta per sfuggire alla peste, sognò una donna bellissima, vestita di rosso e avvolta da un manto celeste. Quella figura si presentò come Liberatrice, promettendogli la salvezza, per sé e per il suo popolo. Al risveglio, tra le pietre, Fortunato scorse un occhio che lo fissava. Scavò, e da lì emerse un’immagine sacra della Vergine, che accoglie sotto il suo manto i devoti — tra cui lo stesso papa Celestino V.

Il grido “Madonna, lìberaci!” fu il primo a risuonare tra le rovine. A pronunciarlo fu Fortunato stesso, commosso e attonito di fronte all’immagine sacra che emergeva dalle pietre. Quel grido divenne presto invocazione collettiva, simbolo della speranza ritrovata. Ma prima che l’immagine fosse portata in paese, scoppiò una contesa con la vicina Sulmona, forse per via dell’incerta collocazione del luogo del ritrovamento. Si decise allora di affidare la scelta alla sorte: l’immagine fu posta su un carro trainato da buoi, che avrebbero indicato la direzione. I sulmonesi attaccarono al carro sette paia di animali, ma il carro non si mosse. Bastarono invece due buoi pratolani per metterlo in movimento, fino a farlo fermare nel punto esatto dove oggi sorge il Santuario.

Segni ricorrenti e archetipi del sacro

Questo schema, a metà tra storia e leggenda, non è esclusivo di Pratola: si ripete in molte apparizioni mariane in tutta Italia. Una sorta di narrazione archetipica in cui il protagonista è spesso un pastore, una pastorella o una persona semplice. Segue un sogno, un’apparizione, la richiesta di costruire un santuario (quasi sempre su antichi luoghi pagani), la scoperta di una sorgente e infine — quasi immancabili — i buoi che indicano la direzione.

A prescindere dall’aspetto religioso, ciò che colpisce è il significato simbolico di queste storie, che presentano elementi ricorrenti come se volessero rappresentare, attraverso linguaggi diversi, i momenti in cui l’umanità smarrisce la rotta. Ed è proprio in quei momenti che la natura — o il sacro — torna a parlare, servendosi di sogni, malattie, animali e luoghi. Tracciando un sentiero che non impone, ma che aspetta solo di essere riconosciuto.

Quando è il luogo a scegliere

Ogni apparizione, ogni culto che nasce in un punto preciso della terra richiama inevitabilmente il concetto di Genius Loci, lo spirito del luogo. Non si tratta di una semplice ambientazione geografica, ma di un’identità profonda, quasi palpabile, che lega il territorio alla sua vocazione più intima. È come se quel luogo sapesse di dover accogliere qualcosa di sacro.

A Pratola Peligna, questo “sapere” si è manifestato nel silenzio degli animali, nel carro che non si muove, nell’insistenza di una direzione che non si può cambiare. Non è il popolo a scegliere dove costruire il santuario: è il luogo stesso che chiama, che reclama il sacro.

Il Genius Loci, in questo senso, non è solo memoria: è presenza attiva. Una memoria che orienta, che conserva, che plasma le generazioni. Non stupisce che la Madonna della Libera sia diventata molto più di una figura religiosa: è parte del paesaggio stesso, della pietra, delle strade, dei riti. È ciò che tiene insieme la comunità, anche quando questa si disperde nel mondo. È la voce che chiama a tornare. Quasi a dire: Pratola, senza la sua Madonna, non sarebbe la stessa cosa.

Un quadro che ha scritto la storia di una comunità

Tutto è partito da un’immagine. Un dipinto semplice, popolare, che ha cambiato il corso della storia di un’intera comunità. Ed è proprio su quell’immagine che voglio soffermarmi.

L’affresco si presenta con tratti essenziali: colori intensi, contorni netti, scarsa profondità prospettica. Non c’è movimento, né narrazione dinamica. Tutto è statico e solenne. Mancano paesaggi o sfondi architettonici: lo spazio è simbolico, non reale — come spesso accade nell’arte sacra a funzione votiva.

La Vergine, con il manto aperto, accoglie sotto di sé i devoti. Tra loro spicca la figura inginocchiata di papa Celestino V, riconoscibile dalla tiara. La Madonna non è distante, né idealizzata: è una presenza inclusiva, che raccoglie, protegge, copre — in senso materno, ma anche politico e spirituale.

Un’immagine semplice, sì, ma capace di imprimersi nel tessuto popolare della vallata, fino a diventare non solo oggetto di venerazione, ma anche una narrazione visiva densa di simboli..

Pur essendo presumibilmente datato al 1540, lo stile appare più antico rispetto alla pittura rinascimentale che nello stesso periodo fioriva nei grandi centri. Nel Cinquecento, infatti, la pittura italiana esplorava già profondità prospettiche, corpi realistici, movimenti teatrali. Ma in contesti come l’Abruzzo interno, le botteghe locali continuarono a seguire modelli tardo-medievali, legati alla funzione devozionale più che alla ricerca estetica. Gli artisti si formavano sul posto, e la committenza privilegiava immagini leggibili, dirette, capaci di istruire e rassicurare. Nei luoghi di culto popolari, infatti, la pittura serviva a istruire e commuovere, non a stupire per virtuosismo. Il pubblico era contadino o artigiano, e aveva bisogno di immagini chiare, gerarchiche, frontali, non di illusioni prospettiche.

La Madonna domina la scena, enorme rispetto ai fedeli, con lo sguardo fisso e le mani giunte in una compostezza che comunica protezione. Il suo manto non è solo un elemento pittorico: è un confine tra il caos e la salvezza, tra la malattia e la speranza.

Anche i colori parlano: rosso come vita e passione, azzurro come cielo e spiritualità. È un linguaggio simbolico antico, che unisce la terra al divino attraverso la pittura.

Nel corso degli anni l’affresco ha subito diversi restauri più o meno rispettosi della sua forma primitiva. Il primo documentato risale al 1855, quando i Priori del Santissimo Sacramento commissionarono un’operazione che fu, più che altro, una ridipintura integrale. Si sovrappose una nuova raffigurazione alla figura antica, di cui oggi purtroppo abbiamo perso l’originaria fattezza. L’intento era devoto, ma il concetto di restauro dell’epoca era molto lontano dai criteri conservativi moderni. Nel 1952, l’affresco fu nuovamente restaurato, questa volta dal professor Enrico Vivio dell’Aquila, con l’obiettivo dichiarato di restituirlo al suo “stato originario”, per quanto possibile, intervenendo sulle alterazioni accumulate nel tempo. Dopo i terremoti del 2009 e degli anni successivi, il Santuario fu interessato da una nuova fase di lavori strutturali e di messa in sicurezza.

Questa lunga storia di restauri, aggiustamenti e recuperi ci parla non solo di un’opera d’arte, ma anche del rapporto continuo e vivo che la comunità ha avuto — e continua ad avere — con questa immagine. Un affresco che non è rimasto immobile nel tempo, ma ha seguito i respiri della devozione, della memoria e persino del restauro.

La Madonna della Libera non è quindi solo una figura religiosa. È un’immagine che racconta un tempo, un modo di credere, un legame concreto tra persone e territorio. La sua leggenda, i buoi che scelgono la via, l’immagine fuori scala che protegge sotto il manto, parlano un linguaggio arcaico ma ancora comprensibile: quello del sacro che si radica nei luoghi, e che chiede ascolto più che spiegazioni.

In un tempo dove tutto corre, cambia, si aggiorna, quest’opera ci ricorda che esistono immagini che resistono perché hanno già detto tutto, e continuano a parlarci anche nel silenzio. Basta fermarsi a guardare. E magari chiedersi, come Fortunato: chi è davvero quella donna che ci fissa da secoli tra le pietre?

di Luca Martelli 

redattore e curatore editoriale per Abruzzo Forte e Gentile

Per saperne di più LA MADONNA DELLA LIBERA DI PRATOLA PELIGNA

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