GORIANO SICOLI, IL CULTO DI SANTA GEMMA E L’EREDITÀ DEL FEMMINILE SACRO

Per conoscere davvero la storia di un luogo non basta sfogliare i libri o osservare le sue architetture: occorre immergersi nelle sue manifestazioni più intime, nei racconti tramandati e nei riti che ancora oggi si compiono con cura e devozione.
L’Abruzzo, come tutto il Centro-Sud Italia, è un contenitore traboccante di usanze, credenze e gesti rituali che affondano le radici in un passato antico, spesso sconosciuto o ignorato, ma capace di raccontarci molto più di quanto immaginiamo.

Questa volta ci spostiamo nella valle Subequana, a Goriano Sicoli, un piccolo borgo in provincia dell’Aquila, inserito nell’entroterra abruzzese a circa 700 metri s.l.m. dove ogni anno, il 12 maggio, si celebra la festa di Santa Gemma.
Una santa che non è solo una figura religiosa, ma un simbolo potente che unisce la dimensione storica, antropologica e spirituale in una trama fatta di pane, di femminilità, di rifiuti, di scelte e di silenzi.

La chiesa di Santa Gemma, oggi ancora chiusa a seguito del terremoto del 2009. La teca della santa è possibile visitarla nella piccola chiesa di San Luca

UNA PASTORELLA CHE SCELSE IL SILENZIO
Di Santa Gemma abbiamo frammenti di informazioni che ne delineano la storia. Sappiamo che nacque attorno al 1375 a San Sebastiano dei Marsi, frazione del comune di Bisegna, da una famiglia di pastori. Rimasta orfana in giovane età a causa di un’epidemia, venne affidata a una comare che la accolse a Goriano Sicoli, dove condusse una vita semplice, fatta di preghiera, lavoro e solitudine scelta.

Si racconta che la sua bellezza e la sua grazia colpirono il conte Ruggero IV di Celano, che tentò invano di conquistarla. Ma Gemma, fedele alla propria vocazione interiore, rifiutò ogni proposta. Colpito dalla sua fermezza, il conte le fece costruire una cella nei pressi della chiesa di San Giovanni Battista, dove visse da reclusa volontaria.

Una scelta che, per l’epoca, era rivoluzionaria: non un rifiuto imposto, ma una rinuncia consapevole, quasi provocatoria, che sottraeva la donna al destino consueto di moglie o religiosa. Gemma scelse invece la solitudine, la preghiera e la povertà. Lasciava per sé solo il minimo necessario, preferendo destinare ciò che le veniva donato dai paesani ai più poveri del paese. Un gesto che ancora oggi rivive nel simbolico “dono del pane”. Rimase reclusa nella sua cella per 43 anni. Morì il 13 maggio 1439. Subito dopo la morte si verificarono numerosi miracoli. I gorianesi, colpiti da tali segni, convinsero il vescovo di Sulmona a far riesumare la salma della donna, che risultò miracolosamente intatta. Fu così traslata in un’urna di legno fatta costruire dagli abitanti del borgo e collocata sotto l’altare maggiore della chiesa di San Giovanni, successivamente dedicata a Santa Gemma.

Nonostante un controverso documento del 1621 ordinasse la demolizione di alcuni altari a lei dedicati — forse più per motivazioni economiche che spirituali — il culto di Santa Gemma ha continuato a vivere, radicato nella pietà popolare e rinvigorito da testimonianze di guarigione, protezione e presenza viva.

IL RITO: UNA SCENA CHE SI RINNOVA OGNI ANNO
Una storia apparentemente semplice, dove non ci sono né apparizioni, né chiamate particolari, né martiri persecutori, ma la ferma volontà di una giovane donna di rimanere reclusa pur di non piegarsi ai voleri del signore del luogo.
Eppure, l’eredità culturale che Gemma ha lasciato nel cuore e nello spirito dei gorianesi è così tangibile negli occhi e nei racconti della popolazione, al punto che la sua presenza è ancora viva e si manifesta principalmente nel mese di maggio, quando si rinnova uno dei momenti più intensi del culto: l’incontro tra la “pasturella” e la “comare”.

L’11 maggio, una giovane di San Sebastiano — scelta tra le ragazze del posto — veste gli abiti di Santa Gemma e viene accolta da una donna adulta, madre e moglie, che la ospita nella stessa casa dove visse la santa.
È un rito che racconta il passaggio, il ponte tra due femminilità: l’una simbolo di purezza e promessa, l’altra della protezione e della memoria. Una promessa quella tra le due donne che diventano così “comari” anche nella vita di tutti i giorni, che le accompagnerà per tutta la vita.

Le donne del paese preparano da giorni pani e ciambelle secondo antiche ricette tramandate in silenzio, spesso custodite tra le mani delle anziane. Questi pani, incisi con le iniziali della santa, vengono portati in processione in cesti che le ragazze reggono sul capo, in abiti d’epoca.


Durante la processione, il pane viene benedetto e poi distribuito casa per casa.
Dopo i tradizionali “spari” in onore della santa, la festa prosegue con un pasto collettivo all’aperto: salame, uova, frittata e la cosiddetta “pizza del pellegrino”.
Non si tratta solo di cibo, ma di una forma di condivisione rituale, in cui ogni elemento ha un significato.
Il pane devozionale, ad esempio, viene preparato secondo un’antica ricetta — e si dice che, una volta benedetto, non ammuffisca mai, restando intatto anche dopo un anno. Il pane infatti, verrà conservato e mangiato il 12 maggio dell’anno successivo, dopo essere stato opportunatamente bagnato.
Una proprietà, quella di una così “lunga conservazione” che viene attribuita alla benedizione della santa stessa.

Il 12 maggio è poi il giorno centrale della festa: dopo la messa, la pasturella porta un cero nuovo, mentre la comare porta quello dell’anno precedente.
È un gesto ciclico, un passaggio di testimone che attraversa i secoli.

Al centro delle funzioni religiose vi è anche l’unzione con l’“olio santo della Vergine”, applicato sulla fronte e sulla gola, e in particolare sulle parti dolenti del corpo, come gli arti inferiori.
L’olio, contenuto in piccoli recipienti con l’effigie della santa, viene utilizzato con fede taumaturgica, spesso applicato con una penna di gallina: un gesto che rievoca pratiche terapeutiche rituali di antica memoria.
È un atto che unisce la materia (l’olio, il corpo, il dolore) alla fede (la protezione, la guarigione, la grazia).
La stessa penna viene usata anche dai pellegrini della compagnia di Gioia dei Marsi, che si fermano a Goriano durante il loro cammino verso la Madonna della Libera.

Un momento carico di suggestione è la circumdeambulazione attorno all’altare maggiore: i fedeli vi girano più volte, toccando la teca che custodisce le reliquie e suonando una campanella a ogni giro.
Un tempo, i fedeli strofinavano addirittura le parti malate del corpo sulla teca, in cerca della guarigione.
Un gesto antico e potente: un rito di invocazione, ma anche di connessione tra le generazioni, tra la comunità e la santa, tra il visibile e l’invisibile.

Il 13 maggio, infine, la pasturella torna a San Sebastiano in abiti civili: la sacralità si dissolve nel quotidiano, ma lascia traccia.

TRA ARCAICHE MEMORIE E ARTE DEL SACRO: IL MONDO SIMBOLICO DI SANTA GEMMA

A prima vista, la festa di Santa Gemma potrebbe sembrare una semplice tradizione popolare, una di quelle celebrazioni che animano i paesi dell’Appennino con musica, costumi e pane benedetto. Ma per chi sa leggere sotto la superficie, il rito è un codice che racchiude significati profondi, arcaici, che parlano un linguaggio archetipico fatto di identità, di femminilità, di passaggio e di memoria.

La devozione verso Santa Gemma affonda infatti le sue radici in un humus spirituale antico, capace di coniugare la fede cristiana con forme simboliche arcaiche legate al femminile sacro, alla terra e ai cicli della natura. Come suggeriscono gli studi di Emiliano Giancristofaro e Paola Di Giannantonio, la figura della pastorella di San Sebastiano dei Marsi richiama i culti di Demetra e Persefone, con il loro eterno rimando al ritmo di morte e rinascita, alla fertilità, alla trasformazione.

Il gesto della pasturella che viene accolta dalla comare non è solo una rievocazione scenica, ma un vero e proprio rito di passaggio. Una giovane vergine che viene ospitata da una donna matura, madre, sposa: due archetipi femminili che si incontrano e si riconoscono. È un momento sospeso, dove si trasmette una sapienza invisibile, fatta di sguardi, gesti, pane impastato a mano.

Il pane stesso, inciso con le iniziali della santa, è molto più di un’offerta votiva: è un simbolo di vita, di nutrimento spirituale e materiale, un linguaggio ancestrale che ci ricorda che il sacro passa anche attraverso il cibo e la condivisione. È un pane che non si compra, ma si dona. Che non si mangia da soli, ma si spezza con gli altri. Non è solo nutrimento, ma simbolo di benedizione, di alleanza tra uomo e divino. Un pane che, secondo la tradizione, se benedetto, non ammuffisce: come se la santa, pur nella sua assenza fisica, continuasse a vegliare sul raccolto, sulle dispense, sui bisogni essenziali del suo popolo.

E poi c’è la cella. Quel piccolo spazio dove Gemma si ritirò volontariamente. Una rinuncia che oggi potremmo leggere anche come affermazione. In un mondo che le imponeva di “essere qualcosa per qualcun altro”, lei scelse di rimanere fedele a se stessa e al proprio credo. E forse è per questo che il suo culto ancora resiste: perché in lei si riflette un desiderio profondo di autenticità a cui l’essere umano, dentro di sé, da sempre aspira.

Non mancano poi le leggende. Si dice che Santa Gemma abbia lasciato le sue impronte miracolose su una roccia nei pressi del paese. Una traccia tra verità e leggenda, tra mito e folklore, che raccontano di una figura divenuta il genius loci di un piccolo paese e il cui culto è intriso di elementi archetipici: il fuso, il pane, l’olio, le impronte sulla roccia.

La similitudine con altre narrazioni popolari è evidente. Il conte Ruggiero di Celano — l’uomo che avrebbe tentato invano di possederla — diventa simbolicamente una figura demoniaca, un “tentatore” alla stregua di Olibrio, il persecutore di Santa Margherita. Le figure di Gemma, Margherita, Geneviève si sovrappongono in una sorta di filigrana simbolica: tutte giovani, pastorelle, relegate o ritirate, tutte insidiate e tutte, infine, vittoriose nel nome della fede.

Infine, la comunità. Perché ogni gesto, in questa festa, è collettivo. Nulla è mai solo personale. Il pane viene portato casa per casa, il cero passa da una donna all’altra, la memoria si costruisce insieme. E forse è proprio questo il miracolo più grande: che a Goriano Sicoli, ogni maggio, il tempo si fermi per un attimo… e ci ricordi chi siamo stati, e chi possiamo ancora essere.

Alla luce di tutto questo, la figura di Santa Gemma si staglia come una delle più affascinanti dell’intero panorama devozionale abruzzese. Non solo per la sua storia, ma per il modo in cui la sua immagine è cresciuta dentro la comunità, divenendo simbolo di protezione, custodia e femminilità sacra.

Rossella Tirimacco

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