LE VERGINELLE DI RAPINO

 

Un'immagine del secolo scorso, bimbe dai 6 ai 13 anni sfilano dalla chiesa della Madonna di Carpineto fino al centro del paese e si mostrano ai concittadini.
Un’immagine del secolo scorso, bimbe dai 6 ai 10 anni sfilano dalla chiesa della Madonna di Carpineto fino al centro del paese e si mostrano ai concittadini.

Un tempo, quando ancora vigeva il diritto della Madre il paese si chiamava Touta Maruca, ovvero tradotto alla lettera, il Popolo di Maruca. Poi vennero la legge e le prescrizioni del Padre e la gente prese il nome di Marrucini; più tardi, infine, la terra sul fianco del colle, ricco di sorgenti, divenne Rapino, che vuol dire “zona franosa”. A difesa del tratturo pastorale, lungo il quale nelle primavere sacre un toro bianco guidava il cammino dei giovani, il popolo marrucino aveva costruito un’arce chiusa da grandi mura, l’arx tarincria, donde sono giunti fino a noi, ammantati di mistero, steli antropomorfe e statue acefale. In quel recinto, a nome di Joves pater i rappresentanti del popolo prendevano gli auspici, rogavano la legge e, per consacrarla, salivano sul fianco orientale della Montagna, verso le case di Ceria Giovia, grande Madre degli uomini, degli animali e delle messi. Al maestoso ed aereo santuario, tutt’ora, si accede attraverso un imponente arco di roccia, oltrepassato il quale, si penetra in un’ampia caverna, resa ancora più suggestiva dal continuo stillicidio delle acque risorgenti. La sacralità del luogo si è perpetuata nei millenni e alla stipe votiva di età ellenistica si è sovrapposta una chiesetta dedicata dai Longobardi a Sant’Angelo, poi rinominata, dai Benedettini della vicina San Liberatore a Maiella, Santa Maria ad criptas. Di essa restano labili tracce, leggibili meno degli oggetti che la frequentazione dei pastori prima e degli archeologi poi, ha riportato alla luce. La lamina di bronzo, la statua dell’offerente, il bacile cerimoniale e il galletto fittile, tra gli altri reperti restituiti dal deposito, raccontano, infatti, una storia senza segreti. Sulla tabula rapinensis è incisa la legge rogata e sacrata del popolo Marrucino che parcellizza l’archetipo naturale della identità femminile: la capacità di partorire un essere vivente. Vergate nella immutabilità del metallo le prescrizioni della tavola di Rapino fissano le regole della prostituzione sacra che, per gli storici della religione, è mistico servizio su cui si fonda il Panteon mediterraneo. La dies religiosa in cui questa gente italica celebrava la Madre maieutica e kourotrophoi, ossia “Quella che mostra in seno il figlio”, cadeva al tempo del risveglio della natura, pressapoco tra aprile e maggio, considerando che il calendario antico era di dieci mesi; e il complesso dei sacra in cui si ristabiliva la pax deorum prendeva, come ricorda Ovidio, il nome di feriae conceptivae. A Rapino, rustico pago di pastori e agricoltori, la pratica consisteva, almeno per il tempo e nel luogo indicati dalla tavoletta, nell’accoglimento all’interno del collegio femminile (ferantur in servitutem) e nella messa a disposizione della divinità (in ditione), per nome e per conto di tutto il popolo marrucino, di quelle fanciulle che, per nobiltà di nascita o per perfezione fisica e morale, potessero essere considerate il fiore della Gente. Che le giovani destinate al santuario non fossero schiave e che non si trattasse di una comune venditio servarum sub corona, lo dimostrano le disposizioni che dichiarano che la legge istitutiva è sacrata (aisos pacris), rogata dall’intera comunità (totai maorucai lixs). Per di più si impone che la vendita rituale sia amministrata da una regena iovia, alla quale spetta stabilire la giustezza del prezzo (assum pretio ad plenum), e si decreta che il ricavato serva ad accrescere il tesoro dell’arce (divitis cereris) a condizione che la pecunia fanatica sia prelevata solo da chi ne abbia il diritto. Si tratta quindi di hierodulia a cui le fanciulle, sotto l’insegnamento della prista sacaracinirix o prostibulastrix, come altrove la maestra del Collegio è chiamata, si votavano in nome della madre dei Marrucini Ceria Giovia, a cui spetta anche l’attributo di Herentas, per essere Madre del desiderio. La prostituzione sacra era una pratica altamente nobile e prestigiosa, esercitata solo nei maggiori santuari del Mediterraneo: a Locri Epizephiri, a Crotone, a Rossano Vaglio, alla Foce del Sele, solo per citarne alcuni. Per l’Abruzzo un altro esempio accertato si trova nella valle Peligna, a Corfinio. Per comprenderne, almeno in parte, al di fuori della accezione comune del temine, il significato esoterico gioverà considerare che, attraverso questo esercizio religioso, definito da Johan Iakob Bachofen di riconciliazione naturale, le fanciulle spiritualizzavano il proprio corpo oltre i limiti del quotidiano, e partecipavano, attraverso l’eros inteso nella completezza delle sue espressioni, ad una epifania cosmogonica.

 

Le verginelle in processione oggi

 

Ma chi era questa dea alla quale era dedicato il santuario rupestre dei Marrucini? Ceria Giovia, il cui nome compare nell’inno saliano, era il fulcro della religione italica, rappresentava la forza creatrice suprema (a creando dicta), la Madre delle nascite, la signora degli animali, la reggitrice della Natura su cui esercitava, attraverso il numen, la potenza generatrice. Era la signora dei vivi e dei morti, tanto che solo a lei era lecito consacrare il sangue colpevole della vittima, affinché, in suo nome, la punizione riscattasse la colpa. Padrona di due vite e di due anime, Ceria Giovia conciliava in sé l’eterna Fanciulla e l’eterna Madre. Nel primo aspetto, legato alla sfera spirituale, partecipava a tutti gli attributi e ai patronati inferi: la verginità intangibile, gli ornamenti aurei propri del mondo dei morti, l’offerta del gallo annunziante il sorgere del sole e della luna, e guida delle anime nelle case di Dite. Con il secondo aspetto era legata al mondo naturale e ai cicli della vita vegetale, simboleggiati dalle spighe mietute e rinascenti, ma anche dalla sessualità esercitata. Signora della montagna per eccellenza, a Ceria era dedicato anche il recinto sacro dei Pentri, popolo della grande famiglia sannita, affine per origine e cultura ai Marrucini. La tavola detta di Agnone, più dettagliata ma anche meno antica di quella di Rapino, aggiunge molti particolari allo scenario cultuale in cui si muove la dea. L’orto prevedeva all’interno e nelle immediate vicinanze del recinto, molti altari dedicati a madri legate al mondo della rinascita naturale e vegetativa, ognuna delle quali esprimeva un attributo della Signora principale. Mata limpha, ad esempio, garantiva che i raccolti ricevessero la giusta quantità di rugiada, Mata jupiter rigator le piogge, Mata patana pistia, infine, che le spighe si schiudessero bene sotto i colpi della trebbia. La figura di Ceria Giovia ha inciso profondamente la cultura marrucina tanto da essere ancora presente nell’immaginario simbolico e religioso di questi luoghi. Un racconto popolare ricorda che “quando Rapino era più grande di Chieti, qui viveva una regina giunta da lontano”, forse quella Marruca o Maia, pelasgica che, approdata sulla spiaggia di Ortona, con il suo nobile corteggio di donne, sarebbe salita sulla montagna per seppellirvi un giovane figlio o amante, ferito a morte. Si narra anche che le donne del seguito, chiamate Maiellane, abbiano vissuto a lungo nelle grotte della montagna, custodendo tesori, parlando con i morti, e tessendo interminabili tele. La tradizione le descrive come bellissime e bellicose gigantesse, protagoniste di imprese straordinarie e terrificanti, ornate di splendenti gioielli e soprattutto di grandi e tintinnanti orecchini, il cui fascinoso tremolio risuonava per le valli. A maggio le Maiellane coglievano un fiore magico “lu majie”; ed era il maggiociondolo giallo e odoroso che cresce ancora in mezzo ai boschi della montagna. L’antica dendroforia ritorna nella leggenda di fondazione di una Madonna arborea, assisa sul carpino, apportatrice di pioggie feconde e padrona del grano appena spigato, al cui santuario campestre la gente di Rapino rivolge una sentita devozione. In suo onore l’8 maggio si svolge una singolare processione detta delle Verginelle. Le famiglie che hanno bambine di età compresa dai sei ai dieci anni, le vestono con una lunga e serica tunica detta greca di colore rosa, o celeste o, più raramente, bianca. Le bambine, coronate di rose o di altri fiori, hanno i capelli fortemente arricciati, quasi che l’acconciatura costituisca una cifra rituale dell’evento e incedono ornate di gioielli. Spesso la presenza dell’ornamento aureo, che viene cucito alla stoffa, è molto rilevante perché tutta la parentela, sia prossima che allargata, concorre a donare o a prestare i monili, affinché la verginella risulti, per quanto possibile, rutilante e sontuosa. Al riguardo occorre anche precisare che il prestito dell’oro è ritenuto apotropaico. La mattina della festa, ma spesso anche la sera della vigilia, le bambine, così ornate e accompagnate da sorelle maggiori o giovani parenti, distribuiscono per le case pagnottelle di pane appositamente confezionate, ricevendo in cambio somme di denaro che verranno devolute alla chiesa e dolci che invece tengono per sé. Quindi in processione, le Verginelle partono dalla chiesa parrocchiale che è situata sull’acropoli del paese, e cantando inni che, oltre alle lodi mariane ricordano i patronati idrici e agrari della Madonna del Carpino, raggiungono il santuario campestre. Qui ascendono, salendo una scala, a venerare il simulacro posto dietro l’altare. Spesso depositano ai piedi della Madonna piccoli omaggi floreali e denaro. In riferimento alla statua non è di poco conto il particolare che, ripetendo un’interdizione molto diffusa in ambito della religiosità tradizionale, l’effige che viene recata in processione è una copia di quella conservata nella chiesa, considerata il vero numen loci e, pertanto, particolarmente taumaturgica ed inamovibile. A nessuno sfugge il sincretismo che pervade questa festa e la sopravvivenza degli aspetti antichi nelle espressioni attuali. Ponendo a confronto la forma cultuale italica con quella cattolica si notano alcune relazioni che possono essere cosi esposte, succitamente. Come nelle raffigurazioni antiche di Ceria Giovia la Madonna del Carpino è coronata ed ostende tra le braccia il Figlio divino, nell’aspetto di un infante. Inoltre i colori della veste ripetono quelli tradizionali delle greche indossate dalle Verginelle. L’abbigliamento delle bambine richiama in modo preciso le descrizioni antiche della ierodulia: l’arricciatura dei capelli si collega alla sfera dell’estetica apolinnea e dell’eros verginale. Si ricordi, al proposito, l’espressione giuridica della virgo in capillis, indicante nel diritto latino la condizione di illibatezza. Gli ornamenti d’oro rappresentano il duplice valore della morte-rinascita che costituisce la stessa struttura del rito di passaggio. I gioielli, che peraltro sono simbolo di perfezione e di verità ultraterrena, da un lato rimandano al ruolo ctonio della Vergine, signora del mondo dei morti e delle ricchezze ricevute in cambio della perdita della vita, dall’altro esplicitano la maestà solare della Madre e la sua relazione con il raccolto delle messi. Anche nella forma cristiana permane l’aspetto processionale e pubblico della cerimonia: le verginelle sono condotte dinnanzi e mostrate (ferantur) alla comunità e, a nome di questa, ascendono alla teca della Madonna del Carpino che surroga, nelle forme rappresentative e nella geografia sacrale, la grotta non più praticata. Il clima nel quale le famiglie vivono la partecipazione di una figlia alla processione delle Verginelle è molto festoso. La circostanza è percepita come un rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, ma anche come un privilegio e una attestazione di identità culturale. Solitamente le famiglie solennizzano la giornata con un pranzo che riunisce la parentela. La festa ha sempre costituito un forte richiamo per le popolazioni della Maiella orientale che ieri come oggi vi partecipano numerose. Nel secolo scorso colpì la fantasia di molti artisti legati alla rappresentazione mitica dell’Abruzzo, come Francesco Paolo Michetti e Michele Cascella.

 

Fonte: Pagine d’Abruzzo- Le verginelle di Rapino